Il bambino e i mulini a vento

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Sono un tecnico per affinità elettiva.

Proprio così. Affinità elettiva.

So che non c’entra nulla una definizione così, ma mi piace l’idea che sia così. Ci sono portato, sempre stato portato.

Sono un tecnico analitico. I meccanismi, le macchine intese come organi sinergici per fare qualcosa, per me non sono mai stati un problema.

Da bambino hanno tentato di insegnarmi musica: non è per me. Non ne riuscivo a capire i meccanismi: che saranno anche semplici (è matematica applicata ad una “macchina” che produce suono), ma proprio non faceva per me. Doveva esserci qualcos’altro dietro una cassa armonica, non mi davo pace. Certo. Ci voleva la “magia della melodia”, l’ispirazione divina che ti permette di vedere dietro una serie di pallini stagliati su cinque righi una serie di suoni. Per me era un supplizio ogni singolo mercoledì di lezione che Dio mandava sulla terra. Un giorno d’inverno, ho detto basta. Amo smisuratamente la musica, ma non fa per me.

Sono uno scorpione, e quando dico basta è davvero una lapide calata sull’argomento. Così fu.

E fu un bene. Perché di lì a poco mio padre, un uomo totalmente dedito al lavoro e alla famiglia, un tipo tutto d’un pezzo come si dice, diciamo che mi “instradò” sulla via della meccanica. Ci ha provato un sabato di marzo, fuori pioveva. Mi raccontò lo “spirito” che avrei dovuto vedere dietro una serie di ingranaggi, dietro una puleggia, una cinghia, cose così.

Ero una scatola vuota: qualsiasi argomento del genere comunicato con passione e dedizione, io lo assimilavo e lo mettevo in pratica sognando di notte forze oscure, tensioni periferiche, rotazioni assiali, leverismi.

I miei coetanei giocavano con le macchinine. Io le smontavo e le progettavo in attesa di sapere da mio padre se potevano funzionare. Ha saltato mille pranzi per correggere i miei disegni, non lo dimenticherò mai.

Producevo centinaia di bozze, modellini, costruzioni, esperimenti: ero instancabile, era decisamente la mia strada. Non facevo fatica, per me era naturale e rilassante. Una riga tracciata bene su un foglio bianco era meglio di una partita a pallone, vedere in officina un pezzo di carpenteria funzionante disegnato da me era meglio che un’estate a legger giornalini.

Anni fantastici, i primi ‘80. Gli anni della mia formazione parallela, sul campo, in totale libertà di apprendimento, in balia solo della mia smisurata fantasia.

In questo periodo, un giorno di primavera, venne in classe il maestro Derossi. Lo ricordo bene, un tipo simpatico che odorava di sigaro, con la pelle giallastra e il fegato a pezzi. Era piuttosto robusto, capelli grigi, sulla sessantina. Camminava a fatica, non doveva aver fatto una bella vita.

Venne da noi per un’integrazione dell’ora di scienze, uno scambio di lezione che ogni tanto era organizzato dalla nostra insegnante quando l’argomento era di valore.

Derossi era l’insegnante più visionario. Definirlo così oggi mi fa sorridere, ma era considerato proprio in questo modo. Visionario. Intuitivo. All’avanguardia per i tempi. D’altro canto, io ancora non lo sapevo, ma quelli erano anni in cui ogni giorno c’era una novità, dalla musica alla letteratura, da tecnologia alle scienze. Visti oggi sono anni irripetibili. Oggi, avendo già visto tutto quello che c’era da inventare, mi trovassi indietro nel tempo, mi godrei tutto con un approccio assolutamente più entusiastico.

“Il futuro sarà fatto così”, esordì, e fece girare un opuscolo estratto da non so quale giornale scientifico. Nei disegni di quello stampato, semplicemente ebbi una visione. Ero considerato da tutti un po’ come Eta Beta: a scuola, se un armadio non si chiudeva bene e la chiave non funzionava, io ero quello che soffriva per quella serratura, e mentre gli altri facevano l’intervallo io la smontavo per portarla l’indomani oliata e riparata. Era un gioco. Un divertentissimo gioco. Quelle immagini raccontavano di auto elettriche blu senza volante, con un cavo al posto del serbatoio, che percorrevano strade lunghissime fino all’orizzonte, e all’orizzonte si stagliavano, bianche e alte nel cielo azzurro pale eoliche che chiamai mulini a vento. Il sole splendeva, in quelle figure, splendeva brillante su tutto, e le case non avevano tetti rossi, ma blu. Era il sogno del fotovoltaico. Di fianco, in una di quelle figure, c’erano delle torri coniche che sbuffavano nuvole di vapore. A valle di quella collina, le case apparivano molto calde, e le famiglie che ci vivevano erano felici.

Non capivo nulla di tutto ciò, ma mi piaceva. Ricordo solo una definizione: ‘soffioni boraciferi di Larderello’. Quelle torri erano i sistemi di raffreddamento della centrale senese. Ma non era fantascienza, era la realtà.

Per me il fatto che un alito di vento potesse scompigliarmi i capelli, e nello stesso tempo creare energia per accendere una lampadina, era qualcosa di meraviglioso.

Che dalla terra si potesse trarre il caldo per scaldare l’acqua per fare il bagno e per proteggere la casa dal freddo dell’inverno, era fantastico.

E che dal sole di potesse generare corrente per far girare la lavatrice di casa, era fantascienza.

Parafrasando Gates, quella era “La strada che porta a domani”.

Quelli erano gli anni del carbone, del petrolio, del kerosene e dell’amianto.

Gli anni degli idrocarburi e del consumo senza controllo.

Era il tempo in cui, per giuntare un portello, un tubo o un qualsiasi oggetto, si utilizzava la fibra di asbesto.

Per non far inciampare i ragazzini, i cortili delle scuole erano lisci come un tavolo da biliardo: si mescolava alla pastina del cemento la fibra di amianto.

In quegli anni, si costruivano interi quartieri di città pensando solo ai metri quadri e non a come isolarli: tanto c’era il gasolio, e costava poco. Fino a prova contraria.

In quel tempo poco o nulla si sapeva di ciò che è poi risultato palese, reattivo o cancerogeno: era la fase gold dell’economia mondiale, seppur con tutte le crisi del caso.

La generazione dei miei genitori ha fatto più danni della guerra: in 20 anni hanno inquinato più loro che tutta l’umanità da quando è apparsa sul pianeta. È un dato di fatto.

E noi, oggi, se vogliamo un futuro per i nostri figli, abbiamo l’obbligo e il dovere di cambiare rotta.

Siamo costretti.

Quando ero piccolo, sognavo e disegnavo mulini a vento. Era davvero fantascienza.

Non potevo sapere che, da lì a 30 anni, Derossi avrebbe avuto ragione.

La strada che porta a domani la stiamo percorrendo oggi.

Per questo ho scelto di occuparmi di energia alternativa.

Per questo, ogni giorno, faccio del mio meglio per diminuire, un pochino, l’inquinamento lasciatomi in eredità.

In ogni telefonata, in ogni trattativa, in ogni articolo, in ogni chiacchierata.

 

Fulvio Rodda