Facciamo il punto e… le presentazioni.
Ciao, sono un pannello fotovoltaico del 2019, prima di parlarti di cosa vorrei fare o di cosa vorrei essere è bene che ti racconti un po’ di storia. Come generatore nasco negli anni ’50 con le prime sperimentazioni come arricchimento del silicato con ioni di boro e di berillio. I primi esperimenti furono così eccezionali e performanti che i miei trisavoli sono ancora lì che lavorano, e lavorano con un’efficienza che è sicuramente molto più bassa della mia ma sono ancora lì nei campi a terra, buttati non so dove con esattezza nelle lande desolate texane a produrre kW, sicuramente meno di quelli iniziali – ci mancherebbe – ma certamente ancora producono.
Si capisce quindi subito che la mia vita media è tendenzialmente molto molto lunga. Io che ti scrivo sono giovanissimo, ma rimarrò con te almeno quanto il tetto della tua casa, infatti il cambio di moduli fotovoltaici è previsto all’incirca ogni 40 anni non perché non produciamo più, ma semplicemente perché diventiamo meno efficienti dell’inizio. Un impianto fotovoltaico è infatti un impianto molto diverso dagli altri, ha una vita media lunghissima e praticamente ci si dimentica di noi. Un grosso impulso all’industrializzazione e alla costruzione dei miei fratelli e dei miei zii è stato dato, per lo meno in Italia, con il Conto energia di fine anni ’90, concretizzato per la prima volta nel 2007. E ti assicuro che i miei genitori erano assolutamente gagliardi, rifiniti di tutto punto ma, rispetto a me, producevano almeno il 40% in meno. All’inizio si mostravano di colore nero perché erano pensati per inseguire il sole, inseguire il sole su quelli che sono chiamati inseguitori solari, cioè dei pali piantati nel terreno su cui erano installate delle vele, ossia delle piattaforme piatte mobili che, con determinati meccanismi meccanici, seguivano ogni ora l’andamento del sole. Quei pannelli erano di colore nero perché erano di silicio monocristallino di prima generazione, che funzionava molto bene – in termini tecnici si dice “si eccitavano”, passami l’espressione – solo se illuminati da un raggio di sole perpendicolare, per cui era necessario che la luce incidesse perfettamente sulla sua superficie e… producevano da paura. Però, qual era il problema? Bisognava piantare del cemento nella terra, piantare un palo, mettere tutta una serie di meccanismi, anemometri tensori per farli girare proprio come fossero dei girasoli. Hai presente i girasoli? Ecco, il concetto era esattamente lo stesso. Il girasole che cosa fa? Nasce, sente il sole, poi gira lo stelo e aumenta la superficie captante per seguire l’andamento della luce fino poi a chiudersi alla sera e ricominciare lo stesso movimento il giorno dopo. Bello vero? Eh già. C’era un piccolo problema però: questi impianti erano particolarmente costosi. Erano molto incentivati, però il costo non era irrilevante. Per cui, a parte la primissima generazione di questo tipo di pannelli, piano piano si è provato a produrre altri tipi di celle.
Ad esempio, una cella eccezionale era quella fluida in cui il silicio veniva reso polvere e mischiato a delle resine per essere sparate su superfici mobili, flessibili o ondulate. Questo tipo di mescola veniva definita ibrida perché non era rigida, non era solida, non era flessibile, ma era appunto un ibrido. Si raccontava all’epoca che questo tipo di silicio fosse quello più performante e che prendesse, soprattutto sui capannoni o sulle superfici bombate, tutte le condizioni di luce, e lo faceva davvero! Però c’era un piccolo problema: aveva una concentrazione di silicio molto bassa per cui servivano superfici molto molto ampie e non tutti le avevano. A livello industriale se n’è installato moltissimo, ma a livello delle piccole aziende oppure residenziale, dove gli spazi sono molto contenuti, non ce n’era abbastanza per produrre i kW necessari, anche perché questi miei prozii avevano un silicio molto povero per cui, oltre ad essercene poco, era anche molto povero, per cui andavano bene ma solo se c’era una superficie esposta al sole molto ampia.
Con gli anni, e con la quantità di pannelli prodotti nelle aziende in tutto il mondo, ha preso piede una nuova generazione che potremmo definire “il mio cugino di secondo grado”. Ecco, il mio cugino di secondo grado appariva in tutto il suo splendore non di colore nero o grigio – l’amorfo -, ma con una splendida “camicia color blu”, tutta glitterata di cristalli enormi che, a vederlo, abbagliava. Tu ti avvicinavi alla sua superficie e il silicio brillava sotto la luce del sole come un diamante, hai presente? Ecco, così. Quel tipo di pannello, quel tipo di silicio, era il policristallino. Perché? Perché rispetto al monocristallino, che aveva bisogno di una luce perfettamente ortogonale, il policristallino, come dice la parola stessa, era stato studiato per prendere tutte le condizioni di luce.
Nel frattempo che cosa è stato fatto a livello industriale? Sono stati arricchiti i singoli cristalli, è aumentata la resa, per cui i pannelli man mano sono diventati sempre più piccoli, raggiungendo dimensioni di 1 per 1,7 metri. Questa dimensione – che è anche la mia – è stata pensata semplicemente perché è possibile fare composizioni regolari: cioè posizionando i pannelli in orizzontale o in verticale, incastrandoli gli uni con gli altri, si ottengono rettangoli o addirittura quadrati. Per cui la grossa differenza tra la prima generazione e il policristallino era il fatto che il policristallino rendeva addirittura il 30% in più del monocristallino pur mantenendo le stesse dimensioni. Quindi, rispetto all’amorfo, come avrai capito, non c’era paragone, ma anche rispetto al monocristallino si era aumentata la performance nel senso che i miei cugini di secondo grado con la camicia azzurra prendevano tutte le condizioni di luce, tutte quante, dal mattino alla sera. Ovviamente di notte no, però di giorno, appena saliva il sole, ogni raggio luminoso lo traducevano in corrente continua. Per tutti gli anni 2010 questi tipi di pannelli l’hanno fatta da padrone perché, soprattutto in Italia, dove di luce ce n’è tantissima, e nel sud Europa, in Spagna, nel sud della Francia, questi pannelli hanno funzionato molto molto bene perché avevano un rapporto prestazioni-costo molto molto buono rispetto alla generazione precedente.
Ma, come nelle migliori famiglie, l’innovazione continua porta a un passaggio ulteriore. Qualche anno fa, una nuova generazione di silicio è stata immessa sul mercato ed è allora che sono nato io. Che cos’è successo? È successo che l’industria, sempre stando all’interno delle solite misure (1 m × 1,7 m), ha preso i cristalli del monocristallino – ti ricordi? – dei prozii, li ha iodati come il policristallino però facendo cristalli più piccoli. Quindi ha preso la performance della prima generazione unita a quella della seconda, e ha creato quello che è il silicio che li caratterizza, cioè un pannello monocristallino di seconda generazione che è molto diverso dalla prima generazione perché se i miei prozii producevano, a parità di dimensioni, circa 118-120, i più gagliardi 150 Watt, e i miei cugini di secondo grado con le camicie azzurre producevano all’incirca 230-240 Watt, noi della nuova generazione produciamo non meno di 300-305 Watt. Capita la differenza? E tutto questo nello straordinario lasso di tempo molto breve di 10 anni.
Questo ti dà, a grandi linee, l’idea di quanto gli atomi di silicio possano essere gagliardi ed eccezionali. Basta dar loro da mangiare degli ioni di boro un pochino più arricchiti e sprizzano energia da tutti i pori, un po’ come per voi umani bere un energy drink per esempio. Se bevi un energy drink non senti più la stanchezza e vai da paura senza avvertire male ai muscoli. Ecco, un po’ come voi, noi siamo un po’ “sotto steroidi”. Se dovessi fare un paragone tra noi e la prima generazione di silicio monocristallino, direi che noi siamo sotto steroidi rispetto ai miei prozii.
Tutto chiaro fin qui? Bene!
Ma quali sono le parti che mi compongono come pannello?
Presto fatto, ecco qui. Sono fatto di 4 o 5 materiali totalmente riciclabili. Del silicio abbiamo già parlato: è fondamentalmente sabbia, sabbia iodata, arricchita, messa sotto steroidi. E da cosa è ottenuta questa sabbia? Beh, il silicio che mi compone è fondamentalmente estratto dai microchip delle macchine elettroniche che sono molto molto ricche di silicio. Questo silicio, però, deve essere arricchito con ioni che contribuiscano alla generazione di corrente (quello dei microchip è adatto a trasferire informazioni elettriche ma non a trasferire la corrente che serve al pannello). Come potrai immaginare, la polvere sbriciolata dei microchip contiene silicio di altissima qualità mentre a noi pannelli ne occorre molta molta meno! Sotto al sole fa un gran caldo e le condizioni sono ben diverse rispetto ai microchip contenuti nei televisori, nei cellulari e nelle macchine elettriche (in genere obsolete), dove devono starsene ben protetti.
Il silicio, probabilmente lo sai perché ci hai già visti, è sminuzzato, arricchito e fuso in panetti che vengono tagliati sottili come fette di salame e in cui viene inserito un positivo e un negativo in modo da trarre da quella sottiletta – chiamiamola così – di materiale captante tutta la corrente in entrata e in uscita. Quei collegamenti sono fatti di stagno e fanno parte della circuitazione elettronica, anch’essa riciclabile. La cella fotovoltaica così creata è l’unità di misura con cui si costruisce un pannello fotovoltaico, un pannello che ne contiene mediamente una sessantina o anche di più, 60 o 72 celle per i miei fratelli più grandi. Collegate tutte in serie fanno capo a una scatoletta che viene posta nella parte posteriore, la cosiddetta junction box, cioè scatola di giunzione, che prende tutta la corrente prodotta dalle singole celle e la trasmette ai connettori tramite dei cavi. I connettori sono collegati al pannello vicino e via via a quello a fianco in modo tale da fare una compatta serie di pannelli. Quindi, riassumendo, la singola cella collegata a quella vicina viene collegata alla scatola di giunzione, che viene collegata al pannello vicino. Il pannello vicino viene collegato al semi-array che viene collegato all’array e all’inverter e via dicendo.
Ma la cella di per sé non può stare all’aria altrimenti si ossida e non produce più, per cui deve essere inserita all’interno di una superficie di vetro, possibilmente opaca, per evitare i riflessi che possono disturbare gli occhi sui tetti, e tendenzialmente autopulente, in modo che si depositi meno polvere possibile e lo sporco scivoli via; dall’altra parte occorre invece uno strato di EVA (plastica tirata a nastro), che è autofondente, viene stesa sulla parte posteriore della cella fotovoltaica, viene scaldata e forma un tutt’uno fissando la cella sul vetro. Questo “pacchettino” molto gagliardo, che di fatto non si cambia da moltissimi anni perché funziona alla grande, si chiama sandwich.
Il sandwich, te lo ricordo, è lo strato di cella fotovoltaica, con vetro trasparente sul fronte e uno strato di EVA sul retro. L’EVA può essere nera, bianca, ma anche colorata, perché in base alla tipologia di pannello e al luogo in cui va installato si dipinge, si colora, si trucca dello stesso colore della cornice del pannello. Per noi pannelli è molto importante l’outfit perché, dovendo essere installati su diversi tipi di tetti, più siamo coordinati al colore che troviamo e meglio è.
Ad oggi i colori più utilizzati sono il nero, che snellisce e che va per la maggiore; il rosso per i tetti rossi, chiaramente; il blu, come abbiamo detto, per quelli che hanno le camicie in tinta, e altri colori che non ti sto neanche a descrivere perché, per come la vedo io, tanto bene su un tetto non ci stanno, tipo il giallo, il verde, l’arancio, bleah! ☹
Tutto chiaro fin qui? Bene.
Ti chiederai: “sì, però uno strato di vetro potrebbe tagliare”. Certo, infatti il vetro, per essere resistente e non avere problemi, viene protetto da una cornice di alluminio. La cornice di alluminio ha due funzioni: fissare il pannello e proteggere il vetro dallo sfondamento. Infatti, ti assicuro, il sandwich formato e fissato al vetro ha una resistenza pazzesca alla grandine, al vento e al fuoco. È stato studiato nel tempo nei laboratori per avere la massima garanzia di risultato, di performance e soprattutto di sicurezza, di qualità e di resistenza. Per cui non avere dubbi su di noi, siamo forti e decisi. Siamo una compagine romana di silicio!
Tornando per un attimo al discorso dello smaltimento, come avrai capito noi pannelli siamo eccezionalmente riciclabili perché il silicio è sabbia; lo stagno si fonde o si rifonde; il vetro, da quando è stato inventato dall’uomo si può fondere e si può riciclare; l’EVA è fantastica ed è fondamentalmente plastica che si può fondere e rinasce a nuova vita; e l’alluminio idem.
Per cui non avere timori di mettere sul tuo tetto qualcosa che non si possa riutilizzare, perché nei centri di raccolta e smistamento dei consorzi, per esempio PV Cycle o simili, beh, già si fa da anni, non perché siamo esausti a fine vita, ma semplicemente perché può capitare che una grandine di grandezza fuori dal comune ci abbia frantumati o ci abbia fatto spezzare in due perché noi resistiamo, è vero, ma non certo ad angurie che piovono dal cielo. Per cui vai tranquillo: il pannello sul tetto è una garanzia di resistenza, di efficienza e di sicurezza.
Ah, un’altra cosa, se ti stai chiedendo se attiriamo i fulmini, vatti a leggere il capitolo sulle Garanzie, lo troverai molto interessante. Non ti anticipo nulla ma vallo a leggere.
Se fossi un pannello fotovoltaico vorrei avere una prestazione eccellente, essere monocristallino, essere riciclabile, avere le migliori garanzie e la migliore assistenza possibile.
P.S.: ah, dimenticavo, i ragazzi della ISS, la Stazione Spaziale Internazionale, hanno degli ottimi esemplari di pannelli fotovoltaici, ma i cugini che sono installati lassù, a parte costare veramente un occhio della testa, hanno un’efficienza del 40% già da una quindicina d’anni. Non si possono fare paragoni tra quei tipi di celle e quelle disponibili qui sulla terra, anche perché noi qui dobbiamo sottostare all’atmosfera, per cui i parametri in gioco sono totalmente diversi: lassù il sole è molto più diretto, non ci sono annuvolamenti e la resa è certamente, come dire, un altro mondo.
Tratto da: Se fossi un pannello fotovoltaico. Vita, morte e miracoli di una manciata di silicio di Fulvio Rodda, EC Edizioni – Biella, 2020.